Diario di bordo, Festival Città Diffusa
Che cosa significa occupare uno spazio? Che rapporto si genera tra un luogo e i corpi che lo attraversano? La città è davvero di tutt*? E il teatro?
L’edizione pilota di Festival Città Diffusa è una pianta rampicante destinata ad espandersi. Ha gettato le sue radici durante tre caldi giorni di luglio e non ha intenzione di fermarsi: porta con sé ossigeno, freschezza, stupore e tante nuove domande.
Perché creare oggi un festival in piena estate, al culmine della stagione turistica, mentre tutti cercano il fresco tra gli alberi e i boschi, nel tessuto urbano di una città di appena 30.000 abitanti?
Forse perché è casa nostra. Forse perché il teatro può arrivare anche qui, anche fuori dai grandi centri, anche dove sembra non esserci richiesta. Forse perché, per dire qualcosa ai suoi potenziali spettator*, il teatro può partire da ciò che, anche se non visto, è sotto gli occhi di tutt*: il marciapiede, la piazza secondaria, il quartiere operaio, l’ex mercato rionale. Forse perché, per ricominciare a vivere, il teatro ha bisogno di prendersi una pausa dalle pellicce e i gemelli, i lustrini e gli orpelli per indossare invece, per un poco, i famosi abiti dell’imperatore: freschi, comodi, limpidi e trasparenti.
E cosa è che pulsa nelle arterie del corpo di questa programmazione? Quale la linfa che ne percorre piedi, strade, capelli?
Tre grandi temi sono i principali cuori del festival: l’inclusività, il contrasto tra centro e periferia, l’attivazione delle persone che abitano la città. E tutti si intersecano, si contaminano e si spargono in direzioni diverse, a comporre la forma geometrica dell’asterisco.
L’inclusività, tematica cara alle direttrici artistiche di questo festival, è il fil rouge che attraversa: l’intervento di Marzia Bergo a nome del collettivo Rebelarchitette; il laboratorio teatrale L’Asterisco come atto poetico, una riflessione poetica sull’amore che è di tutt* (e quindi antirazzista, antiabilista e non discriminatorio nei confronti della comunità LGBTQ+); la proiezione di Citizen Jane: Battle for the City, sulla vita e le battaglie di Jane Jacobs e, infine, la lettura scenica de La Carovana dei dispersi di Fiammetta Perugi.
Contrasto tra centro e periferia e attivazione dei cittadini, invece, sono esplorate anche dal punto di vista pratico: attraverso le visite all’ex quartiere operaio e del centro storico e tramite la performance itinerante in cuffia dei Kepler-452 in piazza Narbonne.
Per abitare una città bisogna attraversarla, ascoltarla: mettere al centro le persone. Insieme, è possibile prendersene cura e attivare delle trasformazioni.
Per chi è, quindi, Festival Città Diffusa?
Per tutt*, e con l’asterisco.
Venerdì 23 luglio 2021.
Ore 11:00
Ci incontriamo in un bar del quartiere di Saint-Martin de Corléans, a pochi metri da Via Volontari del Sangue e dalla tettoia dell’ex mercato rionale, uno dei nuclei scelti per abitare il festival che inizierà tra poche ore e si diffonderà per la città di Aosta fino al 25 luglio.
Fa caldo, un caldo secco, vivibile. Prendiamo un caffè e guardandoci intorno, tra rumori di tazzine, mormorii e musica estiva, iniziamo la nostra chiacchierata.
Perché siamo qui?
Stefania Tagliaferri e Verdiana Vono, direttrici artistiche del festival, raccontano da dove nasce l’idea di questo progetto.
Stefania La nostra compagnia, Palinodie, opera sul territorio valdostano da diversi anni, occupando luoghi diversi a seconda dei progetti creati. Tutte le nostre idee, però, hanno origine in uno stesso centro, che è la città di Aosta. Con questo festival vogliamo dire siamo qui, portare energie nel posto in cui abitiamo.
Verdiana Pensando ad Aosta abbiamo riflettuto su quale fosse il nostro desiderio: non ci riconosciamo nell’evento spot, ma in processi di politica culturale più ampi capaci di concretizzare istanze. Spesso ad Aosta i luoghi battuti sono un po’ sempre gli stessi, vuoi per la rilevanza turistica, vuoi per una credenza tramandata.
Ci siamo chieste: deve essere davvero così? Abbiamo indagato questi interstizi e pensato a questo Festival sul modello dell’albergo diffuso: non vogliamo che ci sia un corpo centrale, ma tante piccole anime sparse.
Cosa vogliamo portare alla cittadinanza?
Stefania Dei temi forti che ci stanno a cuore e che emergono dal vissuto quotidiano di chi fa parte del gruppo di lavoro. Vogliamo dare spazio a persone e a luoghi “scomodi”, disegnare un presente inclusivo, aperto e senza discriminazioni; portare una forte presenza femminile che non sia solo di facciata.
Verdiana Vorremmo porre l’accento sul fatto che la Valle d’Aosta non deve essere considerata come un posto di serie B rispetto a regioni più grandi e con un panorama culturale più vasto e diversificato. Non è un territorio da colonizzare, né un contenitore in cui inserire eventi: c’è fermento, c’è attività, c’è valore.
Con quali mezzi è stato possibile realizzare il festival?
Stefania All’interno del festival oggi ci sarà la restituzione del laboratorio per under25 Asterisco, finanziato dal Comune di Aosta. Parte del sostegno economico proviene da CELVA, grazie a un contributo assegnato tramite bando. Per la maggior parte, però, Città diffusa è autofinanziato. Crediamo molto in questo progetto e pensiamo sia giusto investire ora per farlo crescere in futuro.
Città diffusa: in quali luoghi?
Verdiana Tre sono i luoghi di questa prima edizione. Rappresentano tre diverse identità di Aosta. Centro e periferia, un gioco di vuoti e pieni: posti che incarnano contrasti, convivenze paradossali e necessarie, lasciano vie aperte.
La tettoia – Via Volontari del Sangue
La tettoia dell’ex mercato rionale in Via Volontari del Sangue fa parte di un quartiere molto vivo, ma allo stesso tempo si trova in periferia. Attualmente è uno spazio vuoto della via, circondato da condomini, parcheggi e abitazioni private.
Ci piace l’idea di partire da lì, di far depositare nuove memorie per futuri possibili.
La piazza – Piazza Narbonne
Piazza Narbonne è uno spazio che ricerca una sua identità. È vicino alla piazza centrale e alle vie principali, ma è messo in secondo piano. A popolarlo sono gruppi diversi, ragazzini di sera, ospiti degli hotel della zona, passanti. Di giorno non offre riparo per il troppo sole, di notte incute timore.
Ci interessano le sue potenzialità.
L’orto- Orto di Sant’Orso.
Di questo luogo ci interessa la sua paradossalità: è all’aperto, ma sembra essere chiuso alla cittadinanza perché frequentato da pochi.
Lo spazio è silenzioso, verde, permette di respirare e constatare l’equilibrio tra natura e architettura.
Sono arrivati i tecnici per l’allestimento. Bisogna continuare i preparativi per stasera: alle 18 e 30 c’è l’apertura del festival con a seguire il TALK.
Che questi lumini sparsi sulla mappa inizino a prendere luce. Buon inizio.
Venerdì sera, ore 18:00.
Via Volontari del Sangue, Tettoia dell’ex mercato rionale
Manca poco all’apertura del festival, c’è fermento. Volontari e volontarie si aggirano tra le sedie, sistemano il banchetto accoglienza e accrediti, si scambiano sorrisi e indicazioni. Sul palco, le giovani persone che hanno partecipato al laboratorio L’Asterisco come atto poetico provano per l’ultima volta le entrate e le uscite davanti allo sguardo attento di Stefania Tagliaferri, che le dirige da lontano; alla loro destra, i tecnici si accordano con Verdiana Vono per gli ultimi accorgimenti. Dopo qualche minuto, raggiunge il gruppo anche Marzia Bergo, architetta, attivista e co-founder di RebelArchitette, futura ospite del TALK.
Il pubblico comincia ad arrivare, i posti a sedere vengono occupati: si parte.
18:30, inizio + TALK
Stefania Tagliaferri e Verdiana Vono salgono sul palco e, prima di lasciare la parola alla loro ospite, danno ufficialmente avvio a questa prima edizione del Festival Città Diffusa. Nella loro breve ma emozionante presa di parola sottolineano la loro volontà di diffondere il festival in luoghi fuori dai contesti convenzionali e già battuti, augurando che l’arte possa mettere luce sui posti bui o ancora in cerca di un’identità.
Marzia Bergo: Rebelarchitette.
Marzia Bergo si accomoda sulla sua sedia e con tono fermo, rapido e deciso, ci racconta la sua esperienza all’interno del collettivo Rebelarchitette. Usa sempre il plurale, il femminile e la sua postura non è mai quella di un sapere che dall’alto viene esposto ed imposto. Al contrario, il suo modo di parlare è aperto, attento all’uditorio, informativo e divulgativo.
Per cominciare, ci racconta il perché della parola “collettivo”: per lei e le sue colleghe è fondamentale sentirsi parte di una micro-comunità all’interno di una collettività. È un essere insieme.
Espone poi l’esperienza DETOXING ARCHITECTURE FROM INEQUALITIES: A PLURAL ACT – DISINTOSSICARE L’ARCHITETTURA DALLE INEGUAGLIANZE: UN ATTO PLURALE. Un progetto ideato da RebelArchitette per la Biennale Architettura di Venezia 2021, all’interno del Padiglione Italia COMUNITA’ RESILIENTI a cura di Alessandro Melis. Per questa occasione il collettivo ha proposto un’installazione video esito della narrazione di 137 professioniste del settore: architette, designer, visionarie, muratrici, influencer, sostenute da una archisorellanza. Obiettivo quello di far conoscere nuove letture della professione non ancora visibili al grande pubblico.
Tra le tante battaglie in cui si impegna il collettivo ci sono: richiedere che in tutti gli Ordini d’Italia venga utilizzato il timbro professionale al femminile, sollecitando la necessità di una pari visibilità e accesso al lavoro; inserire professioniste del settore all’interno di conferenze e eventi pubblici, ancora dominati da soli speaker uomini; e, infine, dare rilievo a percorsi lavorativi e progettuali che mettano al centro riflessioni e soluzioni per migliorare fragilità sociali e ambientali in un’ottica decolonializzante e inclusiva.
L’incontro si conclude con alcune domande che le direttrici artistiche del festival e il pubblico pongono all’architetta, ne riportiamo alcune.
Verdiana Che cosa fanno le arti per la città e le vie?
Marzia Sono fondamentali: le arti sono dei catalizzatori di persone, attivano posti dimenticati. Hanno la capacità di portare alla luce tesori sepolti in miniere abbandonate. L’arte è fatta dalle persone e non è mai estranea al suo contesto: le città devono essere il risultato di questo processo.
Stefania In questo momento storico la parola “ribelle” è cara specialmente alle donne. Visto che questa qualità si ritrova anche nel nome del vostro collettivo, si può dire per voi “ribelle” sottintenda anche una spinta creativa, una risposta alle richieste della cittadinanza per portare innovazioni?
Marzia La nostra modalità di essere architette è diversa da quella che ci è stata insegnata. Noi non vogliamo prenderci uno spazio per occuparlo e chiuderlo; al contrario: lo prendiamo collettivamente per aprirlo sempre di più alle diverse pluralità. La ricerca di appropriazione e allo stesso tempo di apertura è insita anche nel nostro nome: abbiamo usato l’inglese “rebel” perché vogliamo rendere nostro questo termine, ma soprattutto perché è più aperto, conosciuto, universale.
Verdiana Spesso sentiamo parlare di architetture escludenti. Che ruolo ha, o dovrebbe avere, l’architettura nei confronti delle disuguaglianze e delle fragilità?
Marzia Si ottiene inclusività se questa è presente anche nel gruppo di lavoro che sta alla base del progetto: deve essere aperto e plurale. L’architettura è di tutt* e per tutt*.
Più la rappresentanza è larga più si lavorerà a qualcosa che apre a tutto il sociale e che non si limita a una nicchia esclusiva.
Verdiana Parliamo di centro e periferia: come viene percepita quest’ultima? Ha del potenziale? Noi, la Valle d’Aosta, siamo una delle periferie dell’Italia?
Marzia Sì, le periferie mettono in luce le fragilità urbane, specialmente quando si compongono di edifici abbandonati o industriali. Allo stesso tempo, in questi non-luoghi c’è molto potenziale, sono loro che permettono di far nascere altro. Bisogna guardare tutto con occhi nuovi, ripartire dalle persone e poi estendere lo sguardo alle strade, alla città.
Ci salutano con un augurio: che il Festival Città Diffusa possa, anche se per poco, portare nuovi sguardi ed energie ai propri luoghi.
Ore 19:30, Performance: L’asterisco come atto poetico
Che forma ha un asterisco? Qual è la sua definizione? Che rapporto hanno dei giovani corpi con questa figura?
Queste sono alcune delle domande emerse nella restituzione de L’Asterisco come atto poetico, esito di un laboratorio teatrale realizzato da Palinodie con il sostegno del Comune di Aosta che si pone come obiettivo quello di creare un percorso di riflessione sul genere, l’inclusione, la parità e le disuguaglianze. Durante cinque incontri, tenutisi tra giugno e luglio, le giovani persone che hanno partecipato al progetto, tutte under 25, hanno riflettuto sul segno dell’asterisco, sul suo significato linguistico e formale. Si sono messe in gioco, hanno intessuto rapporti, parlato di poesia ed esplorato le loro identità.
Il laboratorio è stato guidato da Stefania Tagliaferri e Verdiana Vono; hanno partecipato: Eleonora Bisoglio, Claudia Casadei, Lorenzo Corso, Ottavia Darbelley, Marta Furlan, Jacopo Gontier, Stephanie Ierace, Vittoria Pardu, Alice Sartore ed Eleonora Scapillato.
Alla fine della performance, dopo gli applausi e gli occhi commossi di spettatrici e spettatori, Stefania Tagliaferri tiene a sottolineare – Questa performance è l’esito di un laboratorio teatrale, noi cogliamo ciò che nasce. In questo contesto intendiamo con performance il luogo della condivisione pubblica e non della esibizione. –
Al pubblico viene consegnato un piccolo foglio in cui le persone partecipanti al laboratorio hanno scritto i loro desideri per una società più inclusiva.
Che possano non essere solo sogni da tenere piegati in un cassetto, ma realtà condivise.
L’asterisco come atto poetico.
Drammaturgia della performance.
C’era una volta una persona che ascoltava le storie prima di andare a dormire. Ascoltava e faceva casino e saltava sul letto chiedendo di bere il latte. Ma anche mentre faceva casino ascoltava, ne sono certa. Dentro casa, sul letto o sul divano.
Fuori c’era il mondo, fatto di tigli del viale, del condominio di fronte, della luce di controllo dell’aereoporto che lampeggiava alternata. Il mondo insomma. La persona cresceva nel mondo e man mano che cresceva guardava e non sempre capiva, non sempre si sentiva al suo posto.
C’era un’altra volta una persona che amava le poesie. Le poesie, voi direte: che cosa vintage! Cose da nonni. Pascoli, Leopardi certo. Ma anche altri, altre autori e autrici che neanche vi immaginate. La persona le collezionava e poi le leggeva ad alta voce, alla finestra. A nessuno, cioè. O forse a un suo pubblico ipotetico e immaginario che sotto la finestra si sarebbe fermato per ascoltare quei versi.
Passò del tempo, e la persona che ascoltava le fiabe era diventata ribelle: forse perché saltava sul letto quando era piccola. Forse per altri motivi. Era diventata una di quelle persone che scrivono i cartelloni e vanno alle manifestazioni, ed era anche rappresentante di istituto. Insomma tutte quelle cose pubbliche che si fanno quando si pensa che il mondo ha bisogno di una revisione.
Una volta accadde che la persona che ascoltava le storie e quella che amava le poesie si incontrarono.
E ci fu dell’imbarazzo perché rimasero a lungo in silenzio. E il silenzio a loro non piaceva molto. Preferivano il suono delle parole: quelle urlate o sussurrate, quelle dette con la voce normale piene di significato o quelle dette mille volte sempre uguali. Loro amavano le parole.
Eppure se ne stavano lì, in silenzio.
Si innamorarono ed ebbero una grande storia d’amore. Cambiarono molte cose nella loro vita e in quella di chi stava loro intorno. Perché con la determinazione e con la poesia si costruiscono nuovi mondi.
La parola persona è una parola aperta. È una parola accogliente. È una parola poetica. Qualsiasi cosa – caratteristica o volto – abbiate immaginato ascoltando la parola persona è giusta. E mai, mai, mai sbagliata.
E se vi state chiedendo quali fossero i loro nomi, quale fosse il loro genere, quale fosse il colore della loro pelle, il paese da cui provenivano, se fossero sane o se avevano una malattia.
Quale fosse la loro religione, se ne avevano una, se potevano camminare o se avevano bisogno di una sedia a rotelle,
se ebbero dei figli o se state cercando di capire se questa è una storia per questa o per quella categoria minoritaria o maggioritaria della società, noi non lo sappiamo. A dire il vero non sappiamo neanche se stanno ancora insieme. Noi non lo sappiamo. E davvero poco importa.
Ore 21:00 PROIEZIONE Citizen Jane: battle for the city
Scende il buio sullo spiazzo dell’ex mercato rionale. Le colonne della tettoia si popolano di faretti viola, lo schermo si illumina e la tettoia diventa custode di un cinema all’aperto.
Il pubblico è vario questa sera, ci sono gli spettatori che seguono tutto il festival, parenti e amici, persone del quartiere che guardano stupite la nuova veste luminosa, magica e ammaliante di un posto che sono soliti considerare abituale e anonimo.
Sullo schermo viene proiettato un film che parla proprio di questo: dei diversi sguardi che possono esserci su una città; di come cambia un luogo quando viene popolato dalle persone; di come uno sguardo che parte dal basso sia fondamentale per capire i bisogni della gente e rendere una città vivibile. Una città è fatta per e dalle persone. Se non si tiene a mente questo, rischia di diventare un modellino, un gioco in cui inserire forzatamente delle pedine che non sono fatte per starci dentro e tutto perde di senso, si svuota, muore.
Jane Jacobs e Robert Moses, due personalità in conflitto: una donna contro un uomo; una scrittrice antropologa contro un potente politico; uno sguardo che parte dalle scarpe delle persone, dal marciapiede, per capirne i movimenti e le necessità contro la volontà tagliente di una macchina di produzione di massa volta alla sola logica del profitto e a un simulato ordine formale.
La straordinaria lotta di Jane Jacobs dovrebbe lasciarci aperti nuovi interrogativi: da chi sono formate oggi le città? Da cittadini o da edifici? Chi le ha pensate per noi? Possiamo muoverci come persone libere fuori dai percorsi che ci sono stati imposti?
Festival Città Diffusa è il tentativo di iniziare a dare una risposta critica a queste domande.
Il pubblico si ferma a chiacchierare; poi si dirada, si allontana verso posti e case diverse.
Mentre la tettoia dell’ex mercato rionale torna a svuotarsi, tante piccole luci, tanti occhi con nuove consapevolezze e domande, cominciano a illuminare le strade di Aosta.
La notte, alla fine, non è poi così buia.
Sabato 24 luglio 2021.
Ore 17:00, ritrovo presso il piazzale della parrocchia Maria Immacolata, quartiere Cogne
Fa molto caldo. Nello spiazzo di fronte alla parrocchia di Maria Immacolata di Aosta, la luce bianca colpisce violentemente gli occhi, il cielo è azzurro.
Il manifesto del Festival Città diffusa campeggia sui sampietrini e dietro il tavolo degli accrediti le volontarie sorridono ai cittadini curiosi che si apprestano a partecipare al tour del quartiere Cogne.
Sono tanti, di età e provenienze diverse: qualcuno è nato tra quei caseggiati; qualcun altro li ha attraversati tutti i giorni senza prestarci troppa attenzione; alcuni ne conoscono le storie altri, infine, ne sanno poco o nulla. È per questo che veniamo affidati alle cure di Patrick Perret, appassionata e loquace guida di AostaWelcome, che ci conduce alla (ri)scoperta dell’ormai storico quartiere aostano e assieme a lui attraversiamo chiese, cortili, filari di alberi e marciapiedi. Il nostro sguardo si sofferma su tutto: sullo stile architettonico dei palazzi, sui panni stesi, sui giardini abbandonati. La voce di Patrick ci racconta la storia del quartiere e ci fa notare la somiglianza della sua struttura con quella della pianta romana di Aosta: un piccolo rettangolo disegnato a misura di una città ideale. All’inizio tutto doveva essere all’interno del perimetro del quartiere: operaio; famiglie con bambini; servizi igienici nelle abitazioni; cortili come punto di aggregazione; servizi e negozi. Vi era addirittura la presenza di guardie che regolamentavano le entrate e le uscite notturne dal perimetro per meglio controllare il rispetto dei turni dei lavoratori in fabbrica.
Alcune signore sedute a prendere un po’ d’aria sulle panchine di un cortile ci guardano incuriosite e a fatica si alzano e zoppicano verso di noi.
“Noi ci abitiamo da una vita qui! Prima si stava meglio! Ora invece…”
Accanto alle più vecchie costruzioni, dietro la chiesa, sorgono due mostri urbani: due grattacieli che da tempo devono essere abbattuti e che ancora campeggiano. Resti calcificati di un altro tempo. Cosa ne penseranno loro della futura maxi riqualificazione che stravolgerà nuovamente il quartiere? Sarà capace di ridurre il tanto disprezzato degrado?
Memori del film su Jane Jacobs-Citizen Jane: Battle for the City (2016)- siamo invitati a guardare le nostre strade in modi diversi e a chiederci in maniera critica: chi pensa le città? Sono a misura d’uomo, di donna, di altr*? Quanto il tempo influenza le nostre abitudini e i nostri bisogni?
Qual è il prezzo per la costruzione di una nuova città ideale?
Ore 18:30, Piazza Narbonne
Kepler-452, Lapsus urbano Il primo giorno possibile
Ritroviamo Piazza Narbonne segnata da quattro grandi cartelli appoggiati a terra a indicare i punti cardinali. Per il momento nessuno sa a cosa serviranno: i futuri spettatori si mettono in fila per ricevere un paio di cuffie da indossare e i passanti osservano la scena con leggera curiosità. Nel frattempo noi, primo pubblico di Lapsus urbano- ci sarà infatti una replica dello spettacolo alle 21:00 – iniziamo a disporci timidi ai margini della piazza, al ritmo della musica che comincia a risuonare nelle nostre orecchie.
Ecco avvicinarsi una figura vestita da arbitro, con tanto di fischietto, bandierina, cartellino rosso e giallo: è l’attore Nicola Borghesi della compagnia bolognese Kepler-452 che, attraverso la sua voce registrata e riprodotta in cuffia e una partitura fisica eseguita dal vivo, sarà la guida della nostra esperienza.
Lapsus urbano Il primo giorno possibile ci fa ripercorrere le tappe della pandemia di Coronavirus: a partire dai primi notiziari shock, all’assalto sfrenato ai supermercati per l’acquisto in blocco di lievito e farine, fino a ricordare particolari exploit dei politici italiani. Un crescendo di ricordi che ha come effetto sul pubblico quello di suscitare una risata isterica, divertita e allo stesso tempo ancora fresca del trauma che tutt’ora continua a spaventarci.
Il resto dello spettacolo vede poi come protagonisti proprio gli spettatori e le spettatrici che sono chiamati a rispondere ad alcune domande su come hanno trascorso il periodo di pandemia, tramite le azioni che vengono proposte in cuffia o gli spostamenti nello spazio dei quattro punti cardinali. C’è da correre, sdraiarsi, osservare il cielo e indicare gli altri. Per tutta la durata dello spettacolo, ci esponiamo agli altri partecipanti, ci rapportiamo con loro, ma senza arrivare mai a toccarci: è ferreo il rispetto delle distanze di sicurezza, pena la squalificazione dallo spettacolo con il cartellino rosso.
Alla fine, ci ritroviamo stanchi e con tante domande. Negli altri occhi si leggono commozione, dubbi, sollievo, disponibilità: ci è stato richiesto di fare uno sforzo fisico e mentale impegnativo al quale nessuno si è sottratto. La scelta della compagnia di attivare chi ha partecipato, ha permesso a noi spettatori di sentirci parte di una comunità capace di abitare uno spazio secondo modalità nuove e diverse. Contemporaneamente, per il tempo della performance, sono stati molti i passanti che si sono fermati a osservare quello che stava accadendo: bambin*, anzian*, ragazz*, turist* con qualche interrogativo, un po’ di imbarazzo e tanto fascino. Sono rimasti, a osservare quello che fuori dall’ordinario stava prendendo corpo sulla piazza. Al termine della prima replica, Nicola Borghesi e Enrico Baraldi, si trattengono per un breve incontro con il pubblico. Senza formalità, ma con passione e ironia, la compagnia condivide alcuni aneddoti della sua storia. Tra racconti di iguane e altri animali esotici nella periferia di Bologna e ricordi del periodo pandemico, emerge in particolare, come modalità di ricerca artistica, il loro interesse per le persone reali che hanno potenziali storie da raccontare.
Ci salutano con un sorriso e con il desiderio di dissetarsi con una birra fresca: manca ormai poco alla seconda replica.
Domenica 25 luglio.
Ore 10: 30, Via Croce di Città, monumento Croce di Calvino.
Ci ritroviamo questa mattina nel centro della città di Aosta, per intraprendere l’ultimo dei percorsi proposti in collaborazione con l’associazione AostaWelcome. Felicity, la guida, aspetta con un impaziente sorriso che tutti i visitatori e le visitatrici arrivino a radunarsi accanto alla fontana, poi inizia a raccontare. Ci conduce attraverso un percorso al limite tra il solito e l’insolito: tutti, tra cittadini e turisti, tengono per l’intera durata della visita l’attenzione alta, lo sguardo curioso e la mente aperta a nuove scoperte.
A partire da Via Croce di Città, raggiungiamo il sito del Museo Archeologico Regionale, ammiriamo le montagne dal muretto di Via San Giocondo e cerchiamo di immaginare l’Anfiteatro romano custodito nel giardino delle suore di San Giuseppe.
Infine, dopo aver raggiunto la sede dell’attuale Istituto Musicale Pareggiato della Valle d’Aosta che occupa la storica Torre dei Balivi, arriviamo all’antico cimitero del borgo di Sant’Orso. Storie e racconti di ospiti illustri sono custoditi tra le pietre tombali e i monumenti. Memoria di una città e di un passato che ha reso il presente quello che è.
Proprio in questa zona della città di Aosta, nell’orto urbano che si apre proprio di fronte al Cimitero Storico, avrà luogo la chiusura del Festival, qualche ora più tardi. Il cielo minaccia pioggia e ancora non sappiamo se si riuscirà ad allestire il giardino all’aperto per gli eventi in programma nel pomeriggio o se si dovrà optare per una soluzione al chiuso. In montagna il tempo cambia in fretta.
Ore 18:30, Orto di Sant’Orso, Via Guido Rey, 20.
Il cielo è sempre incerto, ma sembra tenere. Giusto qualche goccia, per precauzione distribuiamo dei piccoli ombrelli sul tavolo a disposizione del pubblico. Alla fine non serviranno.
Siamo nel pieno centro cittadino di Aosta, ma ci troviamo in un’ampio spazio silenzioso e immerso nella natura. Stiamo per abitare, per il tempo di una lettura scenica e un aperitivo, un luogo magico: un giardino segreto urbano.
Il campanile della collegiata di Sant’Orso svetta tra le mura e il verde del prato. L’Associazione Agricoltura Biologica e Biodinamica Valle d’Aosta lì ha posto il quartier generale della sua attività: sullo sfondo una tettoia arancione e dei banchi di legno testimoniano la presenza di un mercato di prodotti sostenibili.
Il pubblico inizia ad arrivare portando dei plaid e si accomoda sui morbidi cuscini colorati che sono stati disposti sull’erba. L’atmosfera è festosa. Ci sono i volontari e le volontarie dell’associazione, la cantina Tanteun e Marietta che predispone il tavolo della degustazione. Il pubblico è pronto.
L’ associazione Agricoltura Biologica e Biodinamica Valle d’Aosta prende la parola e ci racconta dello spazio che stiamo occupando e dei progetti che lo riguardano. In particolare, ci informano del progetto Orto Sant’Orso, un orto collettivo e didattico che ha l’obiettivo di generare qualità della vita attraverso la rivalutazione del rapporto tra uomo e natura, la rigenerazione di un pezzo di città e il ripensamento delle relazioni tra cittadini. Il presidente, Sergio Gal, parla delle esperienze di inclusione di migranti all’interno del progetto dell’orto. Storie di riuscite e di malinconie: questa esperienza è una parentesi in percorsi grandi quanto una vita umana.
La carovana dei dispersi- Fiammetta Perugi
Inizia l’ultima performance del Festival. Fiammetta Perugi, autrice e interprete, avanza sicura verso il microfono. La carovana dei dispersi è la storia di una città che cambia, la città dell’autrice, Firenze, e dei suoi cittadini che non riescono più a orientarcisi dentro. La città simbolo del Rinascimento, a poco a poco, è diventata dei turisti più che degli abitanti. Di chi la visita e non di chi la vive.
Seguendo i passi spontanei e disorientati di signora malata di Alzhaimer, abbiamo modo di interrogarci ancora una volta sui diversi modi di vivere uno stesso luogo. All’interno del testo sono affrontate tematiche forti e urgenti per il nostro tempo: c’è il confronto tra generazioni, le politiche di gentrificazione, lo scontro tra gli interessi dell’economia e le esigenze, non sempre unanimi di cittadini, studenti e commercianti.
È una voce sensibile quella di Fiammetta Perugi, punteggiata da una sapiente ironia, erede consapevole della comicità toscana.
La lettura termina con forte applauso. Sui volti dei presenti un sorriso e negli occhi la voglia di parlarne con gli amici, con i familiari: l’esperienza dell’invecchiamento degli affetti e dei luoghi non fa sconti a nessuno. Le direttrici artistiche prendono la parola, la prima edizione del festival è ufficialmente conclusa.
Ora è tempo di brindare con i vini Tanteun e Marietta.
Di lasciare che i semi lanciati dal Festival possano germinare, con la benedizione dell’orto in cui ci salutiamo.
Prosit! e che questa fine sia solo un’inizio.
Diario di bordo a cura di Marta Renda – Foto di Marta Lavit